Aldo Morto: conversazione con Daniele Timpano

«Uno spettacolo tristissimo e lungo», così Daniele Timpano descrive Aldo Morto. Tragedia, andato in scena al Teatro Ferroviario di Sassari per Marosi di Mutezza sabato 15 ottobre. Aldo Moro vive nel ricordo di altri, nella memoria sfalsata che ruota attorno alla vicenda. Non si interessa alla verità Daniele Timpano, lo spettacolo nasce da una ricerca sulle fonti intorno alla vicenda, come ci racconta l’attore nel cortile del Teatro Ferroviario, il giorno dopo lo spettacolo:

«Ci sono stati due anni di studio, prima della messa in scena, la ricerca sulle fonti storiografiche, video, i materiali sono stati filtrati più e più volte, sino alle prove. Sono indagati tutti i punti di vista possibili, ad esempio quello dei giornalisti, che vengono chiamati in causa spesso, c’è un’accusa ben precisa nei confronti della divulgazione storica, un discorso sulla memoria come merce. Si vuole rendere conto della vastità delle storie, dei materiali, delle fonti sulla vicenda Moro. E, non ultima, la percezione della storia da parte del pubblico».

14681857_1112354018848381_339114499579011183_nL’indagine sul pubblico risulta ancora più chiara se si pensa al progetto sviluppato nel 2013 al Teatro dell’Orologio di Roma

«Sì, il progetto Aldo Morto 54 (che ha visto Daniele Timpano rinchiudersi al Teatro dell’Orologio per 54 giorni, gli stessi della prigionia di Aldo Moro, ndr) nasce dall’idea di coniugare una lunga tenitura dello spettacolo alla simulazione della prigionia. Ero sempre in diretta streaming, su internet, chiuso in una stanzetta fino al momento di andare in scena. Il valore dell’esperienza sta nell’aver trascorso due mesi a parlare esclusivamente della vicenda Aldo Moro, a leggere la rassegna stampa del 78, a parlare con gli spettatori, analizzando così un cambiamento epocale del nostro paese. Molti mi hanno portato la loro opinione, i loro ricordi, che talvolta entrano in conflitto con ciò che viene raccontato nello spettacolo. Ma è soprattutto la percezione delle cose che cambia. Basti pensare che la Renault rossa in cui è stato trovato il cadavere di Moro per me, che all’epoca dei fatti avevo quattro anni, diventa una macchinetta giocattolo».

Affrontare la storia da più punti di vista, dunque aiuta a non scadere nella retorica?

«La retorica è sempre in agguato. I personaggi sono scritti e interpretati con un certo distacco, brechtianamente. L’interpretazione che faccio di Paolo Frajese, ad esempio, che sulla scena del rapimento quasi calpesta i bossoli, dipende dall’idea che ho di quel personaggio. Non c’è mai un’adesione completa, c’è distacco».

Aldo Morto fa parte di un percorso che inizia con altri lavori, ma dà il via a un ragionamento affrontato in uno spettacolo più recente, Zombitudine. L’Italia è un paese che non reagisce?

«Sì, gli spettacoli precedenti Dux in Scatola, Risorgimento Pop, parlavano di grandi personaggi, Mazzini, Mussolini, e delle loro morti. Zombitudine porta agli estremi il discorso affrontato con Aldo Morto, la stagnazione, il senso di impotenza. È come se ci fosse un blocco storico mai digerito o elaborato. La nostra generazione mantiene questa costante sensazione di blocco. Con Zombitudine si affronta anche un discorso sul teatro: nello spettacolo siamo rinchiusi in un teatro, con il futuro che è dietro un sipario che non si apre, un orizzonte che non si schiude».

Leonardo Tomasi

Questo articolo è da considerarsi come esercitazione su materiali di lavoro. Frutto del laboratorio di critica teatrale e giornalismo culturale condotto a Sassari da Teatro e Critica all’interno di Marosi di Mutezza, rassegna teatrale di Meridiano Zero

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